giovedì 19 gennaio 2012

KOLYMA


Isola unica e terribile è la Kolyma, nell'Arcipelago Gulag staliniano: questo nome non ricorda solo il fiume che per più di duemila chilometri scorre nell'estremo Nord‑est siberiano, tra il Mare d'Ochotsk e quello della Siberia orientale: indica l'ultimo cerchio dell'inferno concentrazionario. Qui le grandi «fiumane» del Terrore staliniano portano milioni di deportati; sono loro a costruire città, villaggi, strade, porti, a disboscare la taiga; la manodopera schiavistica che crea dal nulla la più grande regione aurifero‑mineraria dell'intera URSS, tra gli anni Trenta e Quaranta, è falcidiata da norme di lavoro centinaia di volte superiori a quelle che un secolo fa Dostoevskij aveva osservato nella katorga zarista; dal gelo intollerabile (si lavora fino a quando il termometro non supera i 50 gradi sotto zero); dalle angherie di guardie e capò, dalla denutrizione, dalle fucilazioni in massa nelle tenebre polari al lume di torce di benzina e al suono di bande musicali di detenuti. Là alla fine degli anni Trenta gli uomini «morivano come le mosche». «Crematorio bianco», «Auschwitz di ghiaccio», la Kolyma è un mondo a parte; dice una canzone di lager: «Kolyma, Kolyma, lontano pianeta, dodici mesi inverno, il resto estate ». Per la storia, la Kolyma è la regione dell'oro (sono 70 le miniere e più di un milione gli schiavi nel 1941) e dell'orrore. Eppure, il suo nome non ha la terribile forza evocativa di altri luoghi emblematici del xx secolo: Auschwitz, Dachau, Hiroshima. «Il passato che non vuole passare» della Germania lascia nell'ombra il simbolo dei comunismo: il Gulag.

Nella Kolyma, secondo le cifre di Robert Conquest, specialista occidentale dell'età del Terrore, dagli anni Trenta ai primi Cinquanta muoiono circa tre milioni di deportati.

Nessun commento:

Posta un commento