lunedì 28 maggio 2012

ABOUT FREEDOM


I’m free when:
I can say no
I believe my dreams can come true
I can spend my Sunday afternoon with a good friend
I say “I love you” without feelin’ trapped
I can drive my car, put some music on without destination at least for one day
I go to bed and think there’s another day beyond the night, waitin’ for me
I can hold anyone’s look with no sense of guilt
I cut my long hair like a punk and still feel like I haven’t lost anything
I’m aware I’m no super woman, can be right but can be wrong as well
I believe there’s non superior Being, just nature with its secrets unveiled and its marvels
I can type these words and be sure no one will judge me
I trust people
I love animals and feel non superiority towards them
I do not forget to be grateful for the sun, the moon, the stars and the sky upon my head
I do not forget to be grateful for the food and water I have, the little house and the garden
I remember I have a brain, I can do things by myself
I will be really totally free when I’ll be able to shut the door and believe things can be different
I’m not scared to say “I’m sorry”

L’APOCALISSE IMMANENTE DI DANIELE BARON


Daniele Baron è nato a Pinerolo il 28 luglio 1976 e abita a Villar Perosa (TO). Si è laureato con lode in Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi dal titolo “La morale dell’autenticità“, incentrata sul pensiero del filosofo francese Jean-Paul Sartre.
“Non è tempo di favole. Che vadano a letto i bambini, che si coprano i loro occhi ignari. Non c’è segnale in Tv (“Assenza di segnale”) eppure, un’immagine inquietante attraversa lo schermo, alle sue spalle un lupo sormontato dalla luna piena aggredisce, con la sola presenza, la calma apparente di una sera come tante. Il limitare della stanza non rassicura, non c’è via di fuga, la casa sembra sorgere su dei binari.
Il filo conduttore del “pensiero” di Baron sembra essere l’attesa di un destino più o meno imminente. La caducità dell’uomo è dipinta magistralmente negli occhi della bambina tra le zampe/braccia dell’uomo che ha fattezze animalesche. In uno spazio spesso bidimensionale, e quindi ancor più immediato, scaraventato quasi contro gli occhi di chi osserva, una figura indifferente (e dico “figura“ di proposito) fuma seduta, sembrerebbe addirittura annoiata, sulla sua poltrona mentre l’apocalisse striscia al suo fianco (“Attendendo l’Apocalisse”).
Non c’è religione che tenga di fronte al sinistro sorriso di un Cristo sulla croce che si lascia squarciare il petto e mordere le carni (“La Passione”).
C’è forse speranza nell’espressione della donna che in “Dare alla luce” si regge il ventre gonfio, in procinto di partorire tra famelici lupi che avanzano alle sue spalle? Quelle mani sembrano occhi terrorizzati, spalancati e tesi nella livida notte.
Favole e parabole sono riscritte con pennellate dense, temporali in agguato e chiaroscuri imbrattati di rosso carminio.
Benvenuti nell’Apocalisse di Daniele Baron.

LUNGO STRADE PER POCHI PIEDI OCCIDENTALI: ANJUNA IN ORIENTE



Gokarna, Ninh Binh, Hoian, Hami.
No, qui non troverete le grandi firme, non si organizzano convegni a Battambang, non ci sarà nessun villaggio turistico ad accogliervi. Sono strade per pochi piedi occidentali. Anjuna vede tra gli interstizi dei mezzi di fortuna, lì coglie gli sguardi che feriscono come mezze lune taglienti, immortala mani arrese, volti coperti come a nascondere le parole e le storie che vi racconterebbe soltanto a essere osservato. I bambini ignari di cosa possa esserci al di là dei sentieri non asfaltati, giocano, sorridono, lasciano sciolti i capelli neri, liberi da costrizioni o pettinature alla moda. I loro occhi sono così intensi da sembrare dipinti e lucidati, come quelli delle bambole.
Tuttavia, non lasciatevi ingannare, le città menzionate non sono mete della tristezza, inducono, bensì alla riflessione, alla stasi del tempo che può aiutare a ritrovare la parte più vera di ognuno di noi. Solo chi ha un cuore profondo, un animo che non si accontenta della informe massa di oggetti legati al benessere dai quali siamo travolti e soffocati tanto da non riuscire a scegliere, possono scovare anche qui la ricchezza. Gli occhi semplici, acqua e sapone, una fascia colorata tra i capelli, Anjuna ci regala con i suoi scatti la pienezza dei sorrisi che si stagliano contro la povertà, come la luce e la sua ombra gemella, il sorriso su tutto, nonostante tutto, le guerre, le dominazioni ottuse che hanno devastato terre meravigliose pur non riuscendo (fortunatamente) ad ammutolire la spiritualità degli esseri umani. Ritratti seppia, bianco e nero, colori caldi e freddi ci accompagnano lungo un percorso che ammalia e ferma il tempo. Fermatevi anche voi a pensare, a guardare, a ricordare che l’abbondanza spesso distoglie dalla vera bellezza.
Scatti di Francesca Orlando (alias Francesca Anjuna Terzani).

Vortici e prospettive distorte, diagonali, immagini trasversali decontestualizzate e scaraventate in un vuoto ossessionato da colori decisi, poco inclini a sfumature. Confusione di linee e forme.


Vortici e prospettive distorte, diagonali, immagini trasversali decontestualizzate e scaraventate in un vuoto ossessionato da colori decisi, poco inclini a sfumature. Confusione di linee e forme.
I racconti visivi di Enrico Corti, autodidatta fiorentino, non nascondo la denuncia e i dissapori che mai come ora regnano in molti giovani artisti appartenenti alla generazione di chi non accetta cieca obbedienza e sottomissione ad un sistema ipocrita, bugiardo e spesso incomprensibile. Cantore di patimenti amorosi, senso di abbandono e perdita di coordinate spazio-temporali, questo giovane artista si esprime fortemente con le “maschere” della società (v.i.t.r.i.o.l.) dove ognuno gioca il suo ruolo, con “Odiosi Addii” il senso di separazione non è solo fisico ma visivo, prospettive contrastanti rendono ancor più tangibile la lontananza, la stessa che appare in “Salice piangente (a Tokyo)” in cui il salice sembra definire due paesaggi, l’uomo e la donna, destinati a raccontarsi l’amore da universi paralleli: un cuore al centro del petto ancorato con le sue radici al corpo, e un cuore che si staglia nel tramonto che fa da scenario. Dolore quindi ma anche amore, romanticismo e speranza nelle opere che diventano anche oggetti originali come per “Hand Idea Lamp”. Tra colori, luci ed ombre Enrico ci comunica una grande sensibilità, tanti si riconosceranno nel suo spassionato racconto fatto di olio e acrilico, tessuti e fil di ferro, inserti in stoffa e legno, ogni materia ha qui il suo bel dire nella frammentazione della vita.



Alessandra Piano (“Alepaz”)

Alle zeppe preferisco la zappa


Avete presente quando si è quasi a Pasqua e ogni cosa su cui posiamo gli occhi sembra avere la forma di un uovo? Avete presente tutti gli scaffali che rigurgitano uova di tutte le misure/prezzi/colori? Ecco, oggi, mentre mi aggiravo nel girone infernale che Dante ha dimenticato di descrivere nella Divina Commedia, ho pensato a quel tipo di invasione.
Facciamo un passo indietro. Il mio weekend era iniziato in maniera idilliaca. Uno: finisce la settimana di lavoro, siccome il mio lavoro non mi garba per nulla, io bramo avidamente il venerdì. Due: venerdì sera in piena stasi del corpo, divento tutt’uno col divano come pane e nutella, il gatto sulla pancia che diventa un tutt’uno con me come un panino multistrato. Tre: sabato mattina gran dormita, pranzo, giardino, sole, due passi in centro e si arriva al sabato sera. Daniela passa a prendermi e con gli amici si va a salutare quel postaccio che ha disegnato un omino “incazzuso” sulle pareti esterne, il postaccio dove c’è una musica che non senti altrove (in molti altri locali io distribuirei i tappini), il postaccio dove una certa Alessandra mi tenta con un J. Belly con cioccolato fondente annesso (“Vuoi il cioccolato?” No, dico, Alessà io nella cioccolata ci annegherei!!”), in questo postaccio poi ci ritrovo gli amici, quelle facce sorridenti e rilassate che mi fanno dimenticare l’ora e il colore del cielo. Caro postaccio Post bar mi piaci, mi piaci proprio tanto, e mi piace poggiare la schiena contro il tuo muro mentre faccio opera di taglio e cucito sui passanti.
Fin qui tutto perfetto. Arriviamo a domenica pomeriggio e al girone infernale: io e Daniela, da me ribattezzata Ally andiamo in un centro commerciale che non menzionerò nemmeno sotto camuffate spoglie. E ritorno al discorso delle uova di Pasqua senza dilungarmi troppo per non tediarvi: la zeppa. Sicuro stanotte faccio un incubo di quelli che solo la mia mente malata può partorire. Ogni scaffale ha una zeppa da offrirmi: strutture architettoniche a dir poco strabilianti, accoppiamenti che farebbero impallidire il costume del pagliaccio più fantasioso. Donne dal metro e sessanta in giù io vi prego non comprate le zeppe. Ma immaginate uscire e guardare tutti sentendosi delle stangone pazzesche e poi tornare a casa, arrivare davanti allo specchio(se non peggio, davanti alla conquista della serata) e scendere giù, ma così giù che il mondo sembra cambiare intorno a noi? Un po’ come chi si ostina (io) a comprare un super push-up per poi tornare a casa la sera con dei solchi sul torace e segni rossi a testimonianza di un’impalcatura che non c’è. Poi, la zeppa, ma che fine hanno fatto i tacchi, e con loro il coraggio delle donne che si infliggono questa sofferenza diventando gazzelle dalle lunghe gambe. Zeppa. Onomatopeicamente mi disturba il solo nome, mi fa pensare alla pesantezza della zappa dopo averla usata lungo l’intero campo. Perdonatemi, io non sono alla moda, ora che tutti ci ingozzano con le zappe, oh, scusate, zeppe, io mi ritiro nel mio campo a piantare meraviglie, il prossimo inverno, la zeppa sarà l’ennesimo cimelio nel buio angolo dell’armadio mentre la zappa, quella, la devo usare tutto l’anno per il mio campo!
P.S.: Alle donne piccine io direi che sono dei piccoli capolavori e che non sempre essere alte è sinonimo di bellezza… il sangue si sa, fa fatica ad arrivare troppo in alto!

Colonna sonora dello scritto: “Do You Love Me?” Nick Cave & The Bad Seeds
Domenica 25 marzo. Un altro weekend si è consumato troppo in fretta. Complici una serie di eventi, vuoi la primavera, l’ora legale, la temperatura molto più piacevole, il fine settimana appena trascorso merita uno sguardo approfondito. Venerdì trascorre innocuo, tra le mura di casa, le pareti colorate, la musica, il via-vai di amici da caffè, chiacchiera, annunci e stress da post settimana di lavoro. Sabato partono le catene di sant’Antonio alias A chiama B, B chiama C, il quale a sua volte avverte la coppia D-D e così via, ci si da appuntamento al Caffè delle Merci. E’ buona abitudine infatti, essere legati a un luogo d’incontro, crocevia dal quale poi ognuno sceglierà come proseguire il viaggio nella notte del sabato sera. Luce calda, pareti colorate, quadri, un frigo azzurro poggiato in un angolo e mentre ci si dirige verso l’affollato bancone tra piccoli tavolini, a sinistra, in una nicchia che si può vedere dall’esterno per via della vetrata, campeggia la colonna sonora: Maurizio Di Fazio regge le redini del gioco, ci racconta la sua musica. Non mi dilungherò con titoli e descrizioni tecniche, preferisco arrivare al punto, l’effetto, la risultante. Mi guardo intorno e vedo sorrisi, persone che canticchiano, assecondano con il piede il ritmo e con gli occhi allegri un pezzo che ha fatto storia e che non tramonterà mai. Maurizio inizia in sordina, in un crescendo di intensità, forma e sostanza. Io lo distraggo per scambiare due chiacchiere ma mi sembra un sacrilegio interrompere la concentrazione di chi fa il suo lavoro (uno dei tanti che in realtà svolge) con impegno e apprensione. Torno al tavolo ad ascoltare la paziente Sara Baldelli che ci racconta il vino che abbiamo sul tavolo. Dopo un vino pugliese il gruppo ne propone uno del nord e, al mio preferire il sud a tutti i costi, vengo definita “leghista del sud” quindi, non posso far altro che cedere al vino del nord (secondo me, il Salice era migliore!). Le ore volano, gruppi entrano ed escono, c’è ricambio continuo, si sta un po’ dentro e un po’ fuori, magari per fumare una sigaretta e assaporare l’inizio della bella stagione che non ci costringe tutti accalcati dentro i locali. Sembrano tutti felici, le ragazze che servono sorridenti, educate, il volume è perfetto, si può parlare senza dover diventare soprani e tenori. Sedie sui tavoli, è giunta l’ora, il crocevia impone la sua scelta, chi va a casa, chi a Pescara vecchia, altri scelgono locali in cui andare a ballare. Cerco di convincere Maurizio a seguirci, ma è sazio della sua musica, dei volti sui cui deve aver scorto approvazione, quindi preferisce andare a casa. Io ho compiuto una scelta diversa e, insieme alla mia tribù vado in un locale molto conosciuto. M a questa è un’altra storia, ve la racconterò, se ne avrete voglia, in un altro delirio. Solo un piccolo accenno: il volume ti scoppia nel petto, sigarette, piedi calpestati e cocktail rovesciati, c’è chi fa fatica ad acciuffare con la bocca la cannuccia per bere (sarà il buio??), si può scegliere di cambiar musica semplicemente facendo pochi passi, un corridoio divide tre ambienti, ognuno con il suo dj. Quanto parlo… una parola è poca due sono troppe! Al prossimo weekend, solo se sarà speciale…
Salgono in alto palloncini colorati, uccelli colti in volo disegnano il cielo azzurro come tanti pois. Gli scatti di Lucia Donatelli corrono in orizzontale ed in verticale, guardano a terra e attraversano gli spazi circostanti. Piedi che pedalano, sfidano lo sfaldarsi della realtà di foglie secche d’autunno, piedi che si arrendono in mezzo ad un prato, offesi dal logorio del tempo che ogni cosa graffia. E’ un insieme di colori che si srotolano tra giochi infantili di sedie volanti e finestrini grigi di un treno che viaggia. Non importa quale fosse la direzione, alcuni sguardi sanno interpretare così bene da render meta ogni punto immortalato: il movimento dentro la stasi della fotografia, può accadere. Guardate con gli occhi di Lucia, la “petite italienne” che vuole intrappolare gli istanti, è come leggere un diario di impressioni immerse nel mare del reale e del sogno. La semplicità è la cosa più difficile da interpretare ma, a mio parere, è sempre vera, non richiede inutile artificio.

Lucia Donatelli nasce nel 1984 alle 16 30 di un giovedi caldissimo, il resto della sua storia lo trovate nei meravigliosi scatti che improvvisano la vita.
Dopo un estenuante pomeriggio con Ilaria e Shana per le vie del centro di Pescara torno a casa esausta. Tacchi improbabili, zeppe da giocolieri, occhiali modello televisore dell’88 per chi ci vede benissimo ma vuole inquadrare le genti, profumi che stordirebbero anche un beduino abituato a 45° all’ombra, buste colorate, donne leopardate, uomini con tagli punkettarissimi.
Si torna a casa, cena, trucco e parrucco e via, direzione Caffè delle Merci. Le simpatiche facce dei ragazzi dietro il bancone ti fanno sentire a casa, o meglio, il nostro era già un post-casa.
Si cambia location. I primi calici di vino sono belli che piantati alle pareti dello stomaco.

Post bar (ancora un post), fa freddo, freddissimo, prendiamo un cicchetto, due, tre, quattro! Per scaldarci mentre la folla accalcata fuori dal locale fa la sua parte (come il bue e l’asinello con Gesù). Va meglio, si, comincio a sentirmi meglio di un Gesù (possibilmente prima dei tempi di Giuda), bella, brillante, e soprattutto meno infreddolita, i tacchi, improbabilissimi per me, non mi danno più fastidio. Incontro un’amica. Vedere per la prima volta un’amica che si è sempre e solo incontrata su lavoro è meglio di un trip. Sembra un’altra, come una foto che da sfocata diventa nitidissima. Abbracci e baci, c’è amore nell’aria perché l’alcol è fetente si sa, ma a volte, fa un effetto proprio bello. Andrea è seduto ad un tavolino del Post Bar, sorseggia qualcosa. A terra un telo azzurro da mare e sul telo una decina di libri. Si tratta di un esperimento, mi dicono. Oggi, dopo la sbronza del sabato sera mi ritrovo con un libro di Nietzsche sulla cui copertina è incollata la foto di un uomo che secondo me potrebbe essere il padre di Andrea. Dentro, sin dalla prima pagina, mille frasi scritte in tutti i versi possibili, messaggi, appunti, faccine, freccine, massime “uomo = creatura e creatore 87” sparse così, apparentemente senza senso. E poi una dedica, immancabile per chi dona un libro. C’è una parola pescarese che conosco, la prima che imparai quando arrivai a Pescara ch’ero ancora figlia di una sola terra: “Alessà sei proprio fregna! Continua così, con il piercing dritto dritto nel coraggio e nella hibris, una vincente che è ridente. TVB Andrea”. Io questo Andrea non lo conosco però è stato causa dei miei primi sorrisi del mattino, una domenica tra post sbronza (la vita è tutto un post… it), gola arsurata/bruciata, piedi doloranti (maledetti tacchi ma chi me l’ha fatto fare), mal di testa latente e il cuore pieno di benessere. Ho guardato dritto dritto negli occhi e nel cuore di amici vecchi e nuovi belli come una coccinella d’estate che ti si posa sulla gamba. Post it: Simone oggi paga le conseguenze della sbronza. Un consiglio, e permettete: meglio non bere… la vita è più “fregna” da sani!

Colonna sonora di questo scritto: Fossati,“Naviganti”:
Ore 8 del mattino, parto per il mio sud. Ho con me la musica di Lilia.
Il paesaggio è costellato di terreni, pale eoliche, mare e nuvole gravide di promesse, che sia la primavera ad avvicinarsi o un clamoroso temporale per ora non ha importanza, questa è la mia terra madre, mio amore, mia passione.
Arrivo a Muralda, il terreno che porta le orme dei miei nonni e di mio padre e che dal 28 ottobre, recherà solo le mie, di orme. Conosco ogni passo di questo campo a memoria, le rughe degli ulivi, la forma delle nuvole dal mattino a crepuscolo, gli odori di ogni stagione che si sussegue, la mutevole pesantezza dei rami gonfi di frutti o germogli.

La musica fa magie. Trasfigura i volti, il cielo, addirittura gli odori. Oggi tutte queste immagini mi appaiono diverse, degne di uno sguardo ancora prima di andar via. Se amate sognare, lasciarvi cullare da sonorità eleganti e delicate, ascoltate “Il pleut“. Qui il tempo si ferma, come un treno, ci accoglie in comode sedute e ci trasporta lontano.

Grazie Lilia.